Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (AI) è entrata prepotentemente nella nostra quotidianità. Ma se è vero che può aiutare a scegliere una canzone, risolvere un problema tecnico o tradurre un testo, è altrettanto vero che oggi, sempre più spesso, viene interrogata per affrontare dubbi, disagi, paure, ansie. Anche e soprattutto da parte dei più giovani.
È una realtà che non possiamo più ignorare: molti adolescenti e giovani adulti chiedono consiglio all’AI quando si sentono soli, depressi, disorientati. Si affidano a chatbot, anche generici, per esprimere emozioni che non riescono a comunicare a nessuno. E allora sorge spontanea la domanda: lo psicologo sarà presto sostituito dall’intelligenza artificiale?
Non contro, ma incontro
Il timore che l’AI possa “rubare il lavoro” agli psicologi è legittimo, ma forse mal posto. La questione vera non è se l’AI possa sostituire il professionista umano (spoiler: no, non può), ma come possa diventare un alleato nel facilitare l’accesso alla salute psicologica.
Lo psicologo è insostituibile nella sua capacità di cogliere le sfumature, di leggere tra le righe, di costruire una relazione umana profonda. Tuttavia, non possiamo ignorare che molte persone, prima di arrivare in studio, oggi passano per uno schermo. E proprio lì lo psicologo dovrebbe farsi trovare, non per delegare la propria funzione, ma per intercettare bisogni sommersi.
Una proposta concreta: il chatbot del CNOP
Immaginiamo uno scenario: il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) sviluppa un chatbot affidabile, etico e supervisionato, in grado di offrire un primo orientamento a chi si trova in difficoltà. Il chatbot, basato su modelli linguistici di ultima generazione, potrebbe:
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fornire un primo ascolto empatico e rispettoso;
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offrire indicazioni pratiche sui percorsi di supporto disponibili;
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indirizzare l’utente verso uno psicologo, anche sulla base della geolocalizzazione o delle preferenze di modalità (in presenza o online);
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educare all’uso corretto dei servizi psicologici, contrastando la disinformazione.
In questo modo, l’AI diventerebbe una porta di ingresso al benessere psicologico, non un suo surrogato.
L’occasione per ripensare la professione
La vera sfida, quindi, non è temere l’AI, ma governarne l’uso in modo consapevole e responsabile. È tempo che la comunità professionale prenda posizione non contro la tecnologia, ma a favore di un suo utilizzo etico, trasparente e orientato alla salute mentale collettiva.
L’AI, se guidata dalla deontologia e dalla responsabilità professionale, può diventare uno strumento di equità e prevenzione, soprattutto per le fasce più vulnerabili o meno propense a chiedere aiuto.
Il futuro della psicologia non sarà un duello con l’intelligenza artificiale, ma un dialogo continuo con essa. Sta a noi psicologi decidere se rimanere spettatori o diventare protagonisti di questo cambiamento.
P.S: questo articolo è stato interamente generato dall’AI.