Civile Sent. Sez. 2 Num. 12733 Anno 2025
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: PICARO VINCENZO
Data pubblicazione: 13/05/2025
Il percorso professionale di uno psicologo è costellato non solo dall’impegno clinico e scientifico, ma anche dall’adesione a rigorosi standard etici e deontologici, la cui osservanza è vigilata dagli Ordini professionali. Una recente e significativa pronuncia della Suprema Corte civile ha fatto luce su aspetti procedurali e sui limiti temporali legati ai provvedimenti disciplinari, offrendo spunti essenziali per tutti gli iscritti.
Il Contesto Specifico: Un Caso Esaminato dalla Suprema Corte
La decisione in esame origina da un ricorso presentato contro una sentenza della Corte d’Appello di Bologna, a sua volta pronunciatasi su un caso disciplinare avviato dall’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna.
Il procedimento disciplinare prese avvio a seguito di una segnalazione emersa nel contesto di una causa legale tra persone precedentemente legate da vincolo matrimoniale. L’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna aveva contestato a una professionista iscritta la violazione dell’articolo 7 del Codice Deontologico degli Psicologi, in relazione alla redazione e alla produzione in giudizio di un “parere pro veritate” e di una risposta a una consulenza tecnica di parte avversa.
In particolare, l’Ordine rilevava che nel parere fossero stati riportati dati riferiti dalla cliente privi di riscontri clinici e/o validazioni scientifiche. Basandosi su questi dati non verificati, la professionista avrebbe espresso giudizi personali eccessivamente netti e categorici sulla persona dell’altro genitore, che non conosceva direttamente, e sulle sue capacità genitoriali, nonché sui figli della coppia. Si evidenziava, inoltre, un “crescendo di autoreferenzialità valutativa”.
La professionista, nel difendersi, aveva sostenuto l’insussistenza della violazione, argomentando di essersi limitata a esprimere valutazioni in ambito giudiziario o a riferire i racconti della cliente senza farli propri, esercitando il diritto di difesa della sua assistita. Riguardo ai riferimenti scientifici, si affermava che il documento criticava la consulenza tecnica d’ufficio basandosi su linee guida metodologiche, rientrando così nel diritto di critica e difesa. Si contestava anche l’interpretazione dell’articolo 7 in merito alla presunta obbligatorietà di formulare ipotesi alternative, ritenuta invece facoltativa. Infine, la sanzione applicata (la sospensione dall’esercizio professionale) fu ritenuta sproporzionata, anche in quanto basata su precedenti disciplinari molto risalenti e ritenuti prescritti.
I Gradi di Giudizio Precedenti
Il Tribunale di Bologna, investito del ricorso contro la delibera disciplinare dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna, dopo aver sentito il Pubblico Ministero, aveva confermato la sussistenza della violazione, riducendo tuttavia la durata della sospensione da venti a quindici giorni. La professionista aveva quindi impugnato tale sentenza. La Corte d’Appello di Bologna, nella resistenza dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna (che chiedeva il rigetto dell’appello), rigettò l’impugnazione, confermando la decisione di primo grado. È cruciale notare che nel giudizio d’appello non vi fu alcun intervento del Pubblico Ministero.
La Questione Centrale in Cassazione: Il Litisconsorzio Necessario del Pubblico Ministero
Il caso è giunto dinanzi alla Corte di Cassazione. Nel corso del procedimento, la Corte ha sollevato d’ufficio una questione procedurale fondamentale: la necessaria partecipazione del Pubblico Ministero (presso il Tribunale competente) nei giudizi di impugnazione delle sanzioni disciplinari a carico degli psicologi.
Analizzando la legge istitutiva della professione (in particolare gli articoli 17 e 19 della L. n. 56/1989), la Corte ha rilevato che le delibere disciplinari dell’Ordine possono essere impugnate sia dagli interessati che dal Procuratore della Repubblica. La legge prevede che il Tribunale decida sentendo il Pubblico Ministero e l’interessato, e che contro la sentenza del Tribunale possano ricorrere in appello “gli interessati” (al plurale). L’interpretazione sostenuta dalla Corte, anche in linea con la giurisprudenza più recente e con principi validi per altre categorie professionali, è che il Pubblico Ministero presso il Tribunale competente sia un vero e proprio litisconsorte necessario, dotato di autonoma legittimazione all’impugnazione sia della sanzione che della sentenza di primo grado, e tenuto a formulare le proprie conclusioni in giudizio.
Nel caso in esame, la Corte ha constatato che non vi era traccia della partecipazione o delle conclusioni della Procura negli atti processuali del giudizio d’appello, e l’atto d’appello non era stato notificato ad essa. Questa mancata partecipazione di una parte necessaria ha determinato la nullità della sentenza di secondo grado.
La Rilevabilità d’Ufficio della Prescrizione
Nonostante la nullità della sentenza d’appello, che avrebbe potuto comportare un rinvio del caso al giudice di secondo grado per ripetere il giudizio correttamente integrando il contraddittorio, la Corte ha ritenuto di dover rilevare d’ufficio la prescrizione dell’illecito disciplinare contestato alla professionista.
La Corte ha chiarito che il potere disciplinare esercitato dagli Ordini e la fase giudiziale successiva non sono assimilabili a un semplice controllo amministrativo, ma riguardano l’accertamento di una pretesa sanzionatoria che coinvolge un interesse pubblico indisponibile. Per questo motivo, la prescrizione in materia disciplinare è soggetta a una riserva di legge, e gli Ordini professionali non possono stabilire autonomamente la durata o le cause di estinzione degli illeciti disciplinari attraverso propri regolamenti. Infatti, l’articolo 2 del regolamento disciplinare dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia Romagna, che fissava in cinque anni la prescrizione, è stato ritenuto illegittimo e inapplicabile in quanto l’Ordine non aveva il potere di stabilire tale termine.
La legge sulla professione di psicologo (L. n. 56/1989) non prevede espressamente un termine di prescrizione per gli illeciti disciplinari. Tuttavia, l’assenza di un limite temporale esporrebbe il professionista a un rischio potenzialmente irrazionale. Pertanto, la Corte ritiene necessario colmare questo vuoto legislativo mediante l’analogia iuris, applicando le norme che regolano la prescrizione in altri ambiti professionali. Attraverso questa analogia, si giunge a fissare il termine di prescrizione in cinque anni.
Nel caso specifico, i fatti oggetto della contestazione disciplinare risalivano a novembre e dicembre 2017. Non essendo stato avviato un procedimento penale per gli stessi fatti (circostanza che avrebbe potuto sospendere il termine di prescrizione), il quinquennio dalla commissione dell’illecito era ampiamente trascorso al momento della decisione della Corte.
L’Esito Finale: Sanzione Annullata per Prescrizione
Alla luce dell’intervenuta prescrizione dell’illecito disciplinare, la Corte di Cassazione ha deciso di cassare la sentenza impugnata senza rinvio al giudice d’appello. Questo significa che la sanzione disciplinare è stata annullata, non per un giudizio di merito sulle contestazioni originarie, ma perché l’illecito si è estinto per il decorso del tempo.
Considerando il precedente orientamento contrastante sulla questione della partecipazione del Pubblico Ministero e la rilevabilità d’ufficio della prescrizione, le spese processuali sono state compensate tra le parti.
Cosa Imparare da Questa Decisione:
Questa sentenza è fondamentale per gli psicologi per almeno due motivi principali:
- Ruolo del Pubblico Ministero: Nei giudizi di impugnazione delle sanzioni disciplinari, la presenza del Pubblico Ministero presso il Tribunale competente è considerata necessaria per la corretta instaurazione del contraddittorio. La sua assenza in appello può comportare la nullità della sentenza.
- Prescrizione degli Illeciti: Viene confermato il principio per cui gli illeciti disciplinari a carico degli psicologi si prescrivono in cinque anni. È importante sottolineare che questo termine deriva dall’applicazione per analogia di principi generali e non da un regolamento interno dell’Ordine, che non avrebbe il potere di stabilirlo.